Come e perché hai deciso di scrivere questo libro? Cosa ti ha ispirata?
Ogni storia ha un più o meno lungo periodo di maturazione dentro di me; sta lì, sedimenta, prende forma. A volte lentamente: prima un’idea, poi un’altra, poi nulla e poi, un giorno, quella successiva; altre volte, sbotta all’infuori fatta e finita. È stato questo il caso di L’amore involontario. Una mattina all’alba, ascoltando musica sul mare, è uscita. Proprio per questo meccanismo di sedimentazione so che le storie che scrivo non sono mai casuali, ma hanno per me un senso e una ragione profondissimi. Il perché io finisca a raccontarle credo stia proprio qui: la vita che mi filtra addosso, e dentro, e si posa. E poi, prima o poi, viene fuori. Penso che uno scrittore scelga poi davvero poco. Assecondiamo l’esperienza, le suggestioni, le vite degli altri. Siamo ladri, spesso, delle storie altrui. E tutto questo vivere si trasforma in ispirazione, prima o poi.
Hai fratelli e sorelle? E se sì, che rapporto hai con loro?
Ho un fratello, con il quale ho un rapporto diverso da quando eravamo bambini, come è normale che sia. Lui e io siamo cresciuti molto vicini e da moltissimi anni viviamo in città diverse, conducendo vite che in comune hanno molto poco. A fare da collante ora ci sono i suoi due splendidi bambini, nei quali mi piace cercare le somiglianze che legavano lui e me quando avevamo la loro età e a cui, insieme a mio fratello, è dedicato il libro.
Cos’è l’amore involontario?
L’amore involontario è l’amore che c’è nonostante noi. Malgrado la vitta passata, le offese, le risoluzioni, le incompatibilità. Credo che l’amore involontario in assoluto sia quello che nasce e cresce all’interno di una famiglia: ami prima di conoscere, di scegliere. Ami perché apri gli occhi e vedi i tuoi genitori, tuo fratello, tua sorella. Il tuo mondo. Solo dopo, diventando adulto, prendendo le giuste e naturali distanze, si impara a conoscerli, a capirli, e può capitare a quel punto di chiedersi le ragioni di quel sentimento. Irene, la protagonista di L’amore involontario, scrive al fratello: “Se non fossi mio fratello e mi fosse capitato di conoscerti, non ti avrei mai scelto come amico”.
Come evolve Riccardo lungo tutto il romanzo?
Riccardo è un uomo indurito, intollerante, severo. Ha subito un danno smisurato, e non ha saputo trovare la forza di ricostruirsi. È andato avanti, si va sempre avanti se non si muore, ma non ha elaborato quel danno, finendo per esserne sopraffatto. Fino all’incidente di Irene non lo sa, ma è un uomo molto meno forte di quanto vorrebbe. Demolito da un’ingiustizia enorme, è rimasto sprovvisto di forza vera e quindi si è armato di aggressività. Diventando, a differenza di com’era da bambino, un uomo prepotente. Tradito dalla vita. Incapace di sentire tenerezza. Poi, l’incidente di Irene, e quindi l’obbligo di starle accanto e l’opportunità, che stavolta – sebbene malvolentieri dapprima e solo gradualmente poi – coglie, di tornare a sfiorare un territorio perduto, familiare, dolce. Che si spalancherà sotto i suoi piedi per mostrargli chi era, chi erano loro due, lui e sua sorella, e chi sono diventati. Un’occasione di rinascita, cui Riccardo, infine, si lascia andare.
Cosa significa per te essere scrittrice?
È un po’ difficile rispondere perché, da un certo punto in avanti, scrivere è stata una condizione naturale per me, e quindi cercare di definire lo scrivere equivale a guardarsi un dito e chiedere: Cos’è questo?
Ho iniziato a scrivere presto, prima ancora di leggere seriamente – grave errore di molti, che bisogna a tutti i costi evitare – e non ho mai smesso. È il mio modo di stare al mondo. Il mio filtro, la mia comunicazione, il luogo da dove guardo intorno e dentro. Da qui ad ammettere a me stessa, e di conseguenza agli altri, che era questo ciò che volevo fare, è passato molto. Dipende anche sempre dal contesto in cui si nasce e si cresce, e perciò dal tipo di incoraggiamento, formazione, educazione ricevuti, ma per molto tempo non ho scelto la scrittura prima di tutto il resto. Ho studiato altro, fatto mestieri che con la scrittura non c’entravano nulla perché dovevo mantenermi, trattandolo sempre un po’ male, questo scrivere. Dandogli energie residue invece delle migliori. Perdendo un sacco di tempo. Si fa per paura, per obbligo, per necessità. Molte ragioni e tutte valide, se non si è pronti. Quando lo si è, quando lo sono stata io, ho iniziato a lavorare seriamente, molto duramente e con una soddisfazione che prima non conoscevo. Un trasporto, un’assuefazione, un’identificazione totali. Nella vita pratica non è cambiato nulla: faccio altri mestieri per pagare i conti, ma dentro di me, e nell’organizzazione delle mie giornate, la scrittura da anni ha un posto diverso. Credo sia stato un percorso simile a quello che facciamo tutti quando cominciamo a esplorare chi siamo: una questione di crescita, conoscenza, fiducia, scelta, impegno, rispetto.
Quanto tempo hai passato a scrivere il romanzo? A quali difficoltà sei andata incontro?
Il lavoro più impegnativo e lungo è stato quello di ricerca. Di ciò che succede intorno a un coma non sapevo nulla e ho dovuto fare moltissimo lavoro. Ho avuto l’immensa fortuna di poter consultare (o vessare, piuttosto) il dottor Sandro Bosco, un neurochirurgo appassionato e generosissimo, che con grande pazienza leggeva ciò che gli spedivo e rispondeva alle mie innumerevoli domande. Quando ho avuto abbastanza materiale in mano, e ci sono voluti parecchi mesi, ho cominciato a scrivere, senza mai smettere la ricerca, però, che prendeva direzioni diverse a seconda di dove andava la storia.
Poi, appunto, c’è la storia. L’idea mi si è presentata chiara: con un inizio e una fine, e non succede sempre. Se è vero che devo conoscere la storia prima di scriverla, è altrettanto vero che procedo a piccoli passi e tutto può sempre cambiare, popolarsi, dirottare dal proposito iniziale. Scrivere è stato come lo è sempre: un processo intensissimo, a tratti molto faticoso, a tratti inebriante. Andare così a fondo non è stato facile, ma era ciò che volevo o, piuttosto, era ciò che richiedeva la storia.
Qualche consiglio per chi vorrebbe seguire il tuo esempio?
Leggere, studiare, prepararsi; poi scrivere. Imparare che scrivere è un lavoro artigianale, di riscrittura talvolta tediosissima, ed è un mestiere solitario. Non credo che la scrittura si improvvisi, bisogna in un certo senso esserci tagliati. Bisogna saper lavorare sodo, saper stare da soli, saper osservare e ascoltare il mondo, avere storie da raccontare, andare avanti come i muli anche quando ricevi rifiuti su rifiuti. E se poi i rifiuti continuano, pazienza. Se si scrive sul serio, si scrive lo stesso. Anche perché chi l’ha provato, sa che abitare i mondi immaginari costruiti in letteratura (sia nei panni di lettore che di scrittore) è un’esperienza tra le più intossicanti e travolgenti del mondo.
Ora vivi a NY. Cosa ti manca di più dell’Italia? Che differenza c’è da un punto di vista letterario tra i due Paesi?
Vivo a New York da quindici anni e non ho ancora deciso di stare qui definitivamente. Per fortuna il mio lavoro in università mi permette di trascorrere molto tempo in Italia, e quindi mi sto infine persuadendo di avere trovare un (invidiabile) equilibrio perfetto.
Dell’Italia mi mancano il territorio, gli odori, i ritmi, il caffè al bar, le chiacchiere per strada, la bellezza, la lingua, la dolcezza. Tutto ciò che del proprio Paese manca a chiunque viva all’estero. Con una bella dose di idealizzazione, che vivendo all’estero è inevitabile. Stando via il proprio Paese diventa una sorta di rifugio ultimo cui poter tornare, un giorno; spesso, un luogo che nemmeno esiste.
Ho lottato anni per soffocare la nostalgia, poi credo di avere finalmente accettato che è impossibile. E va anche bene: per me la nostalgia è un motore fortissimo, che porta alla scrittura. Ne ho scritto in un blog proprio poco tempo fa (http://www.gliamantideilibri.it/archives/40454).
Quanto a Italia e Stati Uniti, credo che la differenza a livello letterario sia nella letteratura in sé: gli autori americani sono autori americani e scrivono storie basate sulla propria esperienza, cultura, formazione, e secondo l’eredità che arriva dalla loro letteratura; gli autori italiani fanno lo stesso. Credo sia difficile, almeno per me, generalizzare, individuare due gruppi ben distinti, considerate la ricchezza e la diversità presenti in letteratura in genere. Io leggo autori sia americani che italiani (e canadesi, francesi, indiani, sudamericani, ungheresi…), spinta dalla curiosità verso la storia.
Un progetto per il futuro
Un nuovo libro, naturalmente.